Pensiamo a pellicole come Arancia Meccanica, Columbus,La Talpa o alla serie The Misfits, The Game per arrivare al più recente e pluripremiato The Brutalist, il film di Brady Corbet che agli Oscar 2025 ha trionfato, vincendo ben 3 statuette: basta poco per capire che l’architettura brutalista con le sue location più iconiche rappresenta una precisa scelta estetica e stilistica che per molti cineasti rappresenta un indiscusso valore aggiunto.
Ma cosa caratterizza l’architettura brutalista e perché ha assunto un ruolo da protagonista nei media?
Il Brutalismo in sintesi: i volumi solidi e importanti, le forme essenziali e radicali, il carattere relativamente distopico, ma più che altro l’esposizione dei materiali applicati nella loro nuda espressività: vetro, mattoni, pietra, acciaio, impianti a vista, e superfici non rifinite, con una particolare predilezione per il béton brut, proprio quello che Le Corbusier utilizzò nel suo progetto della Unité d’Habitation de Marseille, conosciuta anche come Cité Radieuse, eletta oggi Patrimonio UNESCO.
Una corrente di architettura dalla bellezza a tratti disturbante, ma eticamente coraggiosa, resiliente, manifestazione di una decisa volontà di affermare un ‘bello’ diverso.
Per comprendere la sinergia che si è stabilita fra Brutalismo e media proviamo a ricostruire un percorso di incontro fra i due.
Già nel 1971, quando la corrente si era affermata non da molto, troviamo una pietra miliare del cinema come Arancia Meccanica di Stanley Kubrick: il film, girato nel quartiere londinese di Thamesmead, aveva trovato in alcune location brutaliste anni ‘60 che lo popolavano il simbolo di una società contemporanea irragionevolmente violenta e del tutto irrisolta.
Da quel momento, oltre al cinema, alcune delle serie più popolari della tv come per esempio Misfits, (2009_2013, teen drama con risvolti fantasy), vincitrice di un premio BAFTA, si svolgono in ambienti di evidente matrice progettuale brutalista; la produzione torna ancora una volta a Thamesmead, fra i sobborghi di Greenwhich e Bexley, e ripropone lo stile del béton brut come icona di una società in cui l’individuo si sente alienato e derelitto.
Nel 2014 arriva un’altra serie assai popolare, The Game: una spy story con tutti i crismi girata, in buona parte, presso la Biblioteca Centrale di Birghingam, edificio progettato nel 1974 da John Madin. Icona del brutalismo britannico per l’uso del cemento, per le geometrie e per la forma a ziggurat capovolto, questa costruzione allora simboleggiava l’idea di progresso sociale e la visione ottimistica che ne stava alla base. Nella serie televisiva la location diventa una sorta di bunker dall’estetica fatiscente in cui la commissione speciale protagonista del plot tenta di mettere in atto un piano contro il KGB.
Ma torniamo al cinema: nel 2011 esce nelle sale La Talpa. Il regista Tomas Alfredson ambienta la sua storia nella Londra dei primi anni settanta. Sullo sfondo della Guerra Fredda si tratta di portare allo scoperto un agente sovietico ai vertici dei servizi segreti britannici che fa il doppio gioco. Il film, premiato sia dalla critica che dal pubblico, trova una delle principali location in una datata struttura apparentemente di epoca vittoriana che in realtà è un blocco architettonico brutalista risalente agli anni ’60 ed inserito digitalmente nel cortile principale dell’edificio dove si volge l’azione. E’ fra questi spessi muri di cemento nudo che si dipana tutta la storia e il gruppo di ufficiali dell’MI6 riesce a portare a termine la missione smascherare la talpa.
Infine arriviamo al tanto acclamato The Brutalist, (2024), un film che ha ricevuto recensioni positive in tutto il mondo. La trama in sintesi: Laszlo Toth, architetto ebreo ungherese scampato a Buchenwald, giunge negli Stati Uniti dove, con fasi alterne, trova la via del successo grazie ad un facoltoso mecenate che gli commissiona il progetto di un grande edificio polifunzionale da dedicare alla madre scomparsa e per il quale sembra accordargli totale libertà creativa. Per questo l’architetto immagina la sua realizzazione come un grande edificio brutalista, puro ed austero nelle linee quanto nella materia, concreta metafora dell’orrore che ha vissuto sulla propria pelle nei campi di concentramento.
Se è vero che nella pellicola sono ben presenti un’estetica e un’iconografia direttamente ricollegabili alla corrente architettonica brutalista, è anche vero che buona parte del film si rappresenta come una forma di narrazione poetica di alcuni fra i luoghi più iconici del nostro paese, in primis le stupefacenti e inconfondibili cave di marmo di Carrara. Immense da un punto visivo, ma anche tematico e simbolico. Quando Toth si pone, non senza difficoltà, alla ricerca del materiale giusto per il proprio progetto, giunge al marmo di Carrara e alle cave: ancora una volta l’incredibile skyline delle Apuane si prende la scena e il marmo torna a risolvere la ricerca dell’architetto sulla materia di elezione, rinnovando quel dialogo fra uomo e pietra che in ogni tempo ha donato visione e infinite possibilità creative all’architettura. E così apre il suo articolo su Vogue Elisabetta Caprotti:
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